La guerra di Israele contro Gaza coinvolge anche la questione delle risorse energetiche. Dietro il conflitto emerge l'interesse di Israele per il controllo delle risorse naturali di petrolio e gas appartenenti ai palestinesi.
Nel contesto dei continui bombardamenti e delle vittime palestinesi, Israele ha gradualmente acquisito il controllo delle risorse naturali della Palestina.
Dall'inizio del conflitto a Gaza, il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha adottato una strategia che ha portato allo spostamento forzato della popolazione gazawi verso sud. In questo scenario, i palestinesi vengono privati anche del loro diritto di accesso alle riserve di petrolio e gas naturale, un diritto considerato fondamentale per la sostenibilità di un futuro Stato palestinese.
Il controllo israeliano sulle riserve di petrolio e gas nella regione rispecchia l'obiettivo strategico di lungo periodo di affermarsi come hub energetico e centro di connettività regionale. In questo contesto, lo sfollamento della popolazione e le vittime civili appaiono come strumenti funzionali a permettere a Israele lo sfruttamento delle risorse appartenenti alla popolazione palestinese.
La questione delle risorse di gas naturale della Palestina è emersa nel 1999, quando il British Gas Group (BG) iniziò a esplorare un vasto giacimento di gas situato tra le 17 e le 21 miglia nautiche dalla costa di Gaza. Conosciuto come Gaza Marine, questo giacimento rientrava nei confini dell'area di controllo di 20 miglia concessa all'Autorità Palestinese (AP) dall'Accordo di Oslo II del 1995. Il leader dell'AP, Yasser Arafat, firmò un contratto di licenza di esplorazione di 25 anni con un consorzio composto da Consolidated Contractors Limited (CCC), il British Gas Group (BG) e il Palestine Investment Fund (PIF). Un anno dopo, nel 2000, BG scoprì due giacimenti con riserve totali di 1,4 trilioni di piedi cubi a Gaza Marine.
Nel 2001, l'elezione di Ariel Sharon come Primo Ministro segnò un atteggiamento più duro nei confronti della Palestina, portando a un periodo turbolento. La Corte Suprema israeliana permise a Sharon di boicottare gli acquisti di petrolio dalla Palestina e di porre il veto agli accordi relativi all'esplorazione e alla produzione di gas naturale, privando sistematicamente i palestinesi dell'opportunità di beneficiare delle proprie risorse.
Con l'inizio della Seconda Intifada, l'approccio israeliano seguì una politica oppressiva sistematica che negava una giusta distribuzione delle riserve di gas naturale nella regione. Questo contesto politico infranse ogni speranza di un accordo vantaggioso per entrambe le parti, principalmente a causa della posizione radicale del governo di Sharon.
Sucessivamente, le autorità israeliane hanno mantenuto la loro opposizione ai finanziamenti diretti all'Autorità Palestinese (AP), adducendo il rischio che Hamas potesse accedere e utilizzare questi fondi a Gaza.
La politica israeliana si è focalizzata sul mantenimento del controllo delle riserve di gas naturale di Gaza Marine e dei giacimenti petroliferi lungo il confine tra Cisgiordania e Israele, limitando la partecipazione palestinese ai proventi derivanti da queste risorse.
Questa strategia ha avuto significative ripercussioni economiche sul territorio palestinese, ostacolandone il percorso verso l'autonomia. Nei negoziati, Israele ha adottato una posizione rigida, citando frequentemente la presenza di Hamas come fattore di instabilità. Le proposte di accordo sono state strutturate in modo da marginalizzare l'Autorità Palestinese (AP), impedendo una distribuzione equilibrata delle risorse e dei relativi proventi.
In seguito agli eventi del 7 ottobre 2023, sono emersi nuovi scenari diplomatici. Durante le prime fasi del conflitto a Gaza, si sono sviluppate diverse ipotesi, inclusa una proposta del Ministero dell'Intelligence israeliano riguardante il trasferimento della popolazione di Gaza nel Sinai. Il Premier Netanyahu ha cercato il sostegno dell'UE per ottenere il consenso egiziano all'accoglienza dei profughi gazawi.
A tre settimane dall'inizio del conflitto, Israele ha rilasciato nuove licenze esplorative a sei società, incluse BP ed ENI, per la ricerca di giacimenti di gas naturale nella Zona G, un'area prospiciente la costa di Gaza. È rilevante notare che il 62% di quest'area ricade nei confini marittimi rivendicati dalla Palestina nel 2019, in base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982, di cui la Palestina è firmataria.
Il rapporto UNCTAD del 2019 ha quantificato l'impatto economico dell'occupazione israeliana sullo sviluppo palestinese. Secondo il documento: "I giacimenti Marine 1 e Marine 2, scoperti nel 1999, sono stati oggetto di perforazioni da parte del BGG nel 2000. I palestinesi avrebbero potuto monetizzare questi giacimenti e investire un valore netto di 4,592 miliardi di dollari nell'arco di 18 anni. Considerando un modesto tasso reale annuo di rendimento del 2,5%, le perdite stimate per i palestinesi ammontano a circa 2,570 miliardi di dollari, dovute all'impossibilità di esercitare il proprio diritto, riconosciuto dal diritto internazionale, di sfruttare le risorse naturali del territorio.
Israele ha reso l’espansione della sua occupazione l’obiettivo principale per proseguire la pulizia etnica dei palestinesi. Nonostante i deboli avvertimenti verbali da parte di alleati chiave come gli Stati Uniti, Israele continua a emettere avvisi di evacuazione per attacchi mirati a Rafah. Se riuscisse nei suoi intenti di pulizia etnica, Israele potrebbe realizzare il suo obiettivo di lungo termine: ottenere il pieno controllo su Gaza e appropriarsi delle preziose risorse di petrolio e gas.
Tale strategia si inserisce nel più ampio progetto del corridoio India-Medio Oriente-Europa (IMEC), dove Israele ambisce a posizionarsi come hub energetico strategico, particolarmente rilevante per i mercati europei che cercano di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico dopo l'inizio del conflitto in Ucraina.
Questa dinamica assume maggiore evidenza nell'evoluzione delle operazioni a Rafah e nella crescente collaborazione con le compagnie energetiche internazionali. La strategia israeliana si sviluppa su due fronti paralleli: il sostegno agli insediamenti in Cisgiordania e le operazioni militari a Gaza, con implicazioni significative per il controllo delle risorse naturali della regione.
La guerra su Gaza non è stata facile come Netanyahu immaginava. Le ambizioni energetiche di Israele sono state frustrate dalla loro incapacità di smantellare Hamas e di concludere la guerra secondo i propri termini.
Mentre la comunità internazionale si affanna a fermare la macchina da guerra israeliana a Gaza, la pressione pubblica continua a crescere, con proteste studentesche che si diffondono in America e in Europa, infliggendo un colpo inaspettato alla politica militare estremamente disumana di Netanyahu contro i palestinesi.
È il momento giusto affinché la comunità internazionale non solo fermi il genocidio in corso, ma aiuti anche i palestinesi a sfruttare le proprie risorse energetiche, che sono un aspetto fondamentale dei loro diritti sovrani, e li protegga dall’insaziabile appetito di Israele per il furto delle terre e delle risorse palestinesi.